UNA DISPUTA ANCORA IRRISOLTA
Quella sulla paternità del whisky è una querelle che da tempo immemore coinvolge due Paesi: l’Irlanda e la Scozia. In seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, avvenuta nel 476 d.C., l’Irlanda era divenuta ricovero di molti religiosi cristiani, che diffusero il loro sapere in diversi campi, non ultimo quella della distillazione. Abbazie e monasteri hanno ricoperto un ruolo importante nello sviluppo di questa tecnica, parte integrante dell’ attività agricola svolta dai monaci, che sottoponevano a fermentazione il surplus di cereali per ottenerne delle bevande. La tecnica della distillazione era stata importata dal Medio Oriente grazie ai viaggi di evangelizzazione dei monaci al seguito di San Patrizio; col trascorrere dei secoli i monaci ebbero modo di affinare le nozioni apprese dagli Arabi e di adattarle alla produzione della uisge (o uisce) beatha (in gaelico “acqua di vità’), che divenne presto compagna discreta e insieme irrinunciabile delle lunghe giornate irlandesi.
Quando nel 1172 le milizie al seguito di Enrico II d’Inghilterra invasero l’Irlanda, la bevanda locale fu scoperta e apprezzata anche dagli invasori. Date le difficoltà incontrate nel pronunciarne il nome, questo venne storpiato e contratto in uisce, uiskie o anche ushky, per diventare infine “whisky” in Scozia e “whiskey” in Irlanda. Non ci sono peraltro vere prove documentarie che confermino 1’origine irlandese del whisky, e l’annosa diatriba con la Scozia, che si considera la vera anima del prezioso distillato grazie alle sue acquaviti divenute celebri in tutto il mondo, è irrisolta. Comunque gli Scozzesi tengono a sottolineare come San Patrizio fosse di natali scozzesi, per cui, quandanche si volesse concedergli il primato, la palma rimarrebbe sempre nella terra del kilt. Precursore dello scotch whisky è stata una birra chiara al sapore di erica prodotta con orzo maltato, di cui gli archeologi hanno trovato testimonianze risalenti almeno al 2000 a.c. Questa birra (realizzata ancora oggi da qualche piccolo produttore scozzese) era a basso contenuto alcolico e non molto stabile. A partire dal IX secolo i monaci irlandesi arrivati in Scozia per convertire al cristianesimo i celti portarono con sé i primi alambicchi. Gli Scozzesi presto scoprirono che grazie a questo strumento era possibile ottenere una bevanda alcolica stabile, e il whisky fatto in casa divenne parte integrante della cultura gaelica.
Il primo documento in cui si accenna a uno spirito distillato dall’ orzo è datato 1494: si tratta del Registro dei Conti dello Scacchiere Scozzese in cui è annotata una partita di 8 boll (l’equivalente di circa 25 kg) di malto indirizzata a frate John Corr per la realizzazione di una aqua vitae (ancora “acqua di vita”, questa volta in latino), nome tradizionale dello spirito distillato ed esatto equivalente del gaelico uisge beatha. Anche in questo caso, come per l’Irlanda, il primo riferimento ufficiale all’acquavite si lega al nome di un religioso, evidenziando il ruolo essenziale svolto dalla Chiesa in quest’ambito. Comunque sia andata, certamente le origini del whisky sono celtiche.
Da questi Paesi il prezioso distillato cominciò presto a diffondersi in tutta Europa. In particolare, durante il XVI secolo la distillazione uscì dal chiuso dei chiostri e fece notevoli progressi a causa della soppressione di alcuni monasteri, in seguito alla quale a molti monaci non restò altra scelta di vita che mettere a frutto la propria competenza.
La Leggenda di San Patrizio
Sebbene Santo Patrizio d’Irlanda, San Patrizio nacque tra il 387 e il 392 in Scozia, Paese dal quale si narra sia stato rapito dai pirati per essere poi venduto come schiavo ad un pastore Irlandese. Dopo anni di peregrinazioni per il mondo, nel 432 il Santo tornò nel luogo in cui già aveva trascorso la giovinezza, l’Irlanda, e qui iniziò un’intensa attività di apostolato come vescovo itinerante.
A San Patrizio e ai suoi monaci si fanno tradizionalmente risalire le prime pratiche di distillazione dei cereali in Europa.
Sebbene le origini dell’irish whiskey risalgano a tempi ben più remoti, fu durante il regno di Elisabetta I (1558-1603) che il prezioso distillato conobbe il suo primo periodo di vero sviluppo, arrivando a guadagnarsi la benedizione della regina in persona.
La prima licenza ufficiale di distillazione, concessa alla distilleria Old Bushmills della contea di Antrim, arrivò nel 1608, appena qualche anno dopo la fine del regno di Elisabetta I. La strada per il successo anche fuori patria sembrava ormai spianata, ma nel 1661 il governo inglese decise di varare un’imposta sul whisky. Questo evento – che in Scozia ebbe gravi conseguenze sul piano della legalità, poiché le distillerie clandestine iniziarono a proliferare – non danneggiò direttamente la produzione irlandese (almeno finché l’Irlanda rimase indipendente), ma influenzò negativamente le possibilità di diffusione del prodotto.
L’inizio di una vera industria del whisky, con la contemporanea scomparsa dal mercato delle piccole distillerie e dei distillatori clandestini, si ebbe nel 1823, quando il Parlamento inglese emanò una legge che favoriva i produttori muniti di alambicchi di capacità superiore ai 160 litri. Tra le oltre 150 distillerie disseminate sul territorio, si distinsero subito due imprese dublinesi a conduzione familiare, la John Jameson & Son e la John Power & Son: approfittando delle nuove opportunità date dalla rivoluzione industriale e dal progresso dei trasporti marittimo e ferroviario, entrambe riscossero un significativo gradimento anche oltreoceano, segnando la ripresa dell’irish whiskey, che iniziò a imporsi nell’intero impero britannico e negli Stati Uniti. La risposta dei produttori scozzesi non si fece attendere. Nel 1853 la distilleria Glenlivet adottò l’alambicco a colonna ideato da Aeneas Coffey, ex ispettore della dogana di Dublino. L’innovativo distillatore consentiva di produrre a costi ridotti e in modalità continua 1’alcol di cereali (grain whisky), un distillato leggero fatto principalmente con cereali non maltati. Questo alambicco, snobbato dalle grandi distillerie dublinesi che temevano potesse snaturare il loro prodotto, rinomato per il caratteristico aroma, fece invece la fortuna dei produttori scozzesi, che assemblando il grain whisky con alcuni single malt diedero vita, verso la fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, ai primi blended scotch whisky, miscele destinate ad ampliare la platea dei consumatori.
Malgrado le pressioni dei distilIers irlandesi, che chiedevano che tale miscela non potesse fregiarsi dell’ appellativo di whisky, nel 1909 il Parlamento inglese diede ragione agli Scozzesi, da quel momento destinati a conquistare il mondo intero con il loro innovativo prodotto. Nonostante la sempre maggiore concorrenza, che gli inizi del ‘900 aveva ridotto il numero delle distillerie irlandesi in attività a sole 30, negli anni successivi l’irish whiskey divenne una delle bevande preferite negli Stati Uniti, con oltre 400 etichette presenti sul mercato. Se l’Irlanda a quei tempi poteva fregiarsi del titolo di maggior produttore di whisky al mondo, di lì a poco due importanti eventi ne avrebbero decretato la caduta: la Guerra d’Indipendenza irlandese e l’avvento del Proibizionismo negli Stati Uniti.
Lo scoppio della Guerra d’Indipendenza irlandese, iniziata con la rivolta di Pasqua dell’aprile 1916, assestò un primo duro colpo alle esportazioni di irish whiskey. Dopo anni di disordine sociale, segnati da rivolte indipendentiste e conseguenti repressioni inglesi, il trattato che, sancendo la partizione dell’isola in Irlanda del Nord – soggetta al dominio inglese – e Repubblica d’Irlanda, avrebbe dovuto porre fine al conflitto, non fece che inasprire le opposte fazioni fino a condurle alla guerra civile. Uno degli effetti collaterali della rinnovata ostilità fu il conflitto commerciale tra Irlanda e Regno Unito: da parte di entrambi i contendenti vennero istituite barriere doganali che contribuirono a mandare definitivamente in crisi la diffusione e la vendita del whiskey irlandese, cui non restò altro mercato che quello americano. L’avvento del Proibizionismo negli Stati Uniti (1919), che sanciva il divieto di produrre e importare alcol allo scopo di arginare un alcolismo ormai dilagante, rappresentò il secondo duro colpo per il commercio dei whiskey irlandesi: molte delle piccole distillerie furono costrette a chiudere, mentre quelle più grandi ridussero sensibilmente la produzione. Quando il Proibizionismo venne abrogato, nel 1933, l’Irlanda si scoprì impreparata a soddisfare la rinnovata domanda degli Americani, lasciando buona parte del mercato ai cugini scozzesi, che poterono imporre oltreoceano i loro blended. Solo nel 1966 ci fu un primo segnale di ripresa, quando tre delle quattro distillerie ancora attive in Irlanda, la Cork, la Power e la Jameson, fondarono la Irish Distillers Company.
I primi a fare del whisky una fonte di guadagno furono i contadini delle Highlands, dove l’orzo impiegato per la produzione dei distillati cresceva in abbondanza. Il primo segnale di un cambiamento si ebbe nel 1505, quando le autorità di Edimburgo riservarono il diritto di fabbricare acquaviti a chirurghi e barbieri, in virtù delle proprietà medicinali che venivano loro attribuite. Nonostante le prime ombre iniziassero ad addensarsi sul destino del whisky scozzese, per tutto il XVI secolo, complice il perfezionamento delle tecniche di distillazione registratosi un po’ ovunque, in Scozia la produzione di distillati crebbe in modo esponenziale. Tuttavia gli eccessi della produzione e del consumo di whisky ebbero risvolti nefasti, quali l’eccessivo dirottamento dei cereali verso la distillazione a scapito degli approvvigionamenti alimentari e il degrado sociale dovuto agli eccessi. Nel 1579 il Parlamento scozzese vietò la distillazione, limitandola a pochi privati per uso strettamente personale. Sull’ onda di queste prime restrizioni, nel 1644 Carlo I, re d’Inghilterra, impose la prima di una serie di tasse sui distillati.
Nel 1707 l’Union Act sanciva la fusione di Inghilterra, Galles e Scozia in un’unica realtà, il Regno Unito. L’integrazione ebbe immediate conseguenze anche sulla produzione del whisky, tanto che fu istituito un organismo apposito, il Board of Excise, con il compito di controllare la produzione e percepire le imposte sui distillati. Nel 1713 il Parlamento inglese impose una nuova tassa sul malto scozzese, aumentata nel 1725, mentre ai nobili inglesi era concessa la possibilità di continuare a distillare per il proprio piacere.
Tutto ciò provocò l’immediata reazione delle popolazioni delle Highlands, terra d’elezione di numerose distillerie. Trattandosi di un territorio difficilmente accessibile agli ispettori del Governo inglese, l’attività clandestina vi prosperò dando il via al dilagante fenomeno del contrabbando. È stato stimato che a Edimburgo verso la fine del Settecento vi fossero più di 400 distillerie illegali, a fronte di sole 8 autorizzate. La guerra del whisky vera e propria si scatenò in seguito alla battaglia di Culloden, nei pressi di Inverness, in cui gli Inglesi sconfissero i rappresentanti dei clan di Scozia. Da quel momento l’accesso al mercato inglese fu concesso solo alle distillerie legali delle Lowlands, che per sfuggire alle nuove tasse avevano nel frattempo sostituito il malto con cereali non maltati, meno costosi.
La pressione dei distillatori inglesi, doppiamente vessati dalle importazioni clandestine dalle Highlands e dal costante flusso proveniente dalle Lowlands, spinse il Governo a votare, nel 1784, il Wash Act, con cui le tasse vennero applicate proporzionalmente alla capacità degli alambicchi. La legge non produsse gli effetti sperati: l’importazione di whisky scozzese, sia legale sia clandestina, continuò a proliferare. Per arginare il fenomeno i governi inglesi che si succedettero fecero lievitare ulteriormente le tasse, con un’ escalation che produsse l’unico risultato di estendere il fenomeno del contrabbando anche alle Lowlands, fino a quel momento immuni. Soltanto con l’Excise Act del 1823, un anno dopo la prima visita ufficiale di re Giorgio IV a Edimburgo dai tempi della cacciata degli Stuart, le tasse sul whisky scozzese furono riportate a un livello tollerabile. Questo provvedimento mise fine alla distillazione illegale e coincise con l’alba della rivoluzione industriale; gli imprenditori cominciarono presto a costruire modernissime distillerie e la produzione ebbe una notevole ripresa, anche dal punto di vista qualitativo. La distilleria Glenlivet, diretta dall’ ormai ex contrabbandiere George Smith, fu la prima a rientrare nella legalità.
Sotto la spinta di geniali imprenditori quali George Ballantine, Arthur Bell, James Buchanan, James Chivas e molti altri, la Scozia si lanciò alla conquista del mercato inglese, e non solo.
Nel 1877, sull’onda del ritrovato slancio, le principali aziende costituirono la Distillers Company Limited (DCL) allo scopo di tutelare gli interessi comuni. Ancora oggi questa società rappresenta una delle ragioni del successo dello scotch whisky nel mondo. A decretare la fortuna delle acquaviti contribuì anche, nel 1880, la diffusione tra i vigneti francesi della fillossera, una malattia della vite che fece quasi scomparire il brandy, a tutto vantaggio dei distillati d’Oltremanica. Nel 1900 la maggior parte delle distillerie in attività destinava i propri prodotti pressoché esclusivamente ai blended. Le distillerie di malt whisky furono man mano acquistate dalle case produttrici dei blended e i loro distillati uniti ai grain whisky per creare miscele a modesto costo produttivo, destinate a imporsi sul mercato. Solo la recente riscoperta del whisky di malto da parte del pubblico ha indotto molte distillerie a uscire in commercio con bottiglie di propria produzione.
Le alterne fortune dello Scotch
La sovrapproduzione che caratterizzò questo periodo d’oro, abbinata alla recessione che colpì la Gran Bretagna nel XIX secolo, costrinse ben presto molte aziende alla chiusura. L’avvento della Grande Guerra e una rinnovata inclinazione verso l’imposizione di misure fiscali repressive non fecero altro che rincarare la dose. A questi eventi si aggiunse il Proibizionismo americano: l’industria scozzese del whisky fu messa a dura prova, ma riuscì a sopravvivere grazie all’intervento della Distillers Company Limited, che riscattò numerose imprese in difficoltà.
Dopo la fine del Proibizionismo la prosperità tornò, ma per poco: lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale impose una nuova battuta d’arresto. Soltanto con la ripresa economica che caratterizzò il Dopoguerra anche il mercato del whisky scozzese tornò a prosperare, insieme alle distillerie clandestine, incrementando le esportazioni. Nel 1948 la produzione era risalita a 80 milioni di litri, e nel 1957 nacque la prima distilleria del Novecento: la Glen Keith, fondata dalla Seagram in seguito alla riconversione di un vecchio mulino. Il ritrovato slancio non si rivelò particolarmente duraturo: una nuova crisi si manifestò a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, e solo a partire dall’ultimo ventennio dello scorso secolo si può parlare di una ripresa stabile e consolidata, come dimostra l’apprezzamento di cui godono in tutto il mondo i whisky nati nella terra del kilt.
La prima bevanda alcolica prodotta dai Padri Pellegrini sbarcati sul suolo americano nel 1620 fu la birra, a cui presto seguì la fabbricazione dei primi distillati, in particolare rum ricavato dagli abbondanti raccolti delle piantagioni di canna da zucchero dei vicini Caraibi. Agli inizi del XVII secolo, in fuga dalle carestie e dalle repressioni della vecchia Europa, approdarono nel Nuovo Mondo i primi emigranti scozzesi e irlandesi, portando con sé i propri preziosi alambicchi e l’abilità ormai acquisita nel distillare acquaviti. Inizialmente i nuovi coloni si stabilirono sulla costa orientale, dove fondarono gli Stati del Maryland, della Virginia, della Pennsylvania e della Carolina del Nord e si adattarono a coltivare la segale e il mais. Bisognò attendere le battute finali della Guerra d’Indipendenza americana per gettare le fondamenta delle prime distillerie commerciali nel Kentucky, che da semplice contea del West Virginia nel 1792 era divenuto ufficialmente il quindicesimo stato dell’Unione.
Nel 1791 il nuovo governo federale già imponeva il primo dazio sui distillati. I coltivatori-distillatori della Pennsylvania dell’ ovest risposero facendo strage degli agenti federali delle tasse, in quella che è passata alla storia come “la rivolta del whiskey”. L’ordine fu ristabilito solo grazie alla decisione del presidente George Washington di negoziare con i rivoltosi. Complice anche l’incombente rivoluzione tecnologica, l’avvio di una vera industria nazionale del whiskey viene simbolicamente collocato nel 1802, anno in cui il neo eletto presidente Thomas Jefferson abolì tutte le tasse sul whisky. A partire dagli anni Quaranta dell’Ottocento il Bourbon fu riconosciuto e commercializzato come un caratteristico tipo americano di whiskey, prodotto in Kentucky, Tennessee, Indiana, Illinois, Ohio, Missouri, Pennsylvania, Carolina del Nord e Georgia. Oggi la produzione di Bourbon è limitata a Kentucky e Indiana, sebbene il solo requisito legale per poter chiamare Bourbon un whiskey sia quello di essere prodotto negli Stati Uniti. Nel 1861 lo scoppio della Guerra di Secessione determinò un’improvvisa interruzione nello sviluppo dell’industria del whiskey, vessata dall’introduzione di nuove tasse aventi lo scopo di finanziare lo sforzo bellico. Fu allora che fecero la loro comparsa i cosiddetti bootleggers, impegnati a vendere ai soldati nordisti e sudisti whiskey di contrabbando, nascosto nei gambali (leggers) dei loro stivali (boot). Finita la guerra, le distillerie conobbero un rinnovato sviluppo che durò fino agli inizi del Novecento. La maggior parte dei distillers scelse di adottare l’alambicco ideato da Aeneas Coffey, che già aveva decretato le fortune dei produttori scozzesi.
IL MOVIMENTO DELLA TEMPERANZA
Nel corso dell’Ottocento acquisì crescente rilevanza nazionale un fenomeno sociale guidato da una potente combinazione di gruppi religiosi, donne e leghe antialcoliche, fautori dell’ astinenza e della moderazione. A mutare radicalmente il panorama sociale si aggiunse, all’inizio del secolo successivo, lo scoppio della Grande Guerra. Il ritorno dei reduci, la riconversione industriale e l’enorme incremento della popolazione seguito all’impennata dell’ immigrazione trasformarono radicalmente il volto della società americana, e la “crociata proibizionista” – in alcuni casi non priva di venature razziste – raggiunse vette inaudite, al punto da diventare uno strumento di pressione politica di cui non era più possibile non tener conto.
I ruggenti anni Venti
Nel 1909 una ventina di Stati aveva già adottato forme più o meno rigide di Proibizionismo, ovvero il divieto di produzione, vendita e consumo di alcolici, frutto del rigorismo puritano dell’ epoca. Il 17 gennaio 1920 con il Volstead Act divenne operativo il XVIII emendamento approvato l’anno prima, che sanciva il Proibizionismo a livello nazionale, con il conseguente smantellamento di gran parte delle distillerie a favore dello sviluppo di una vera industria sommersa. Presto gli Stati Uniti furono inondati di alcol illegale, la maggior parte del quale di dubbia qualità. I “ruggenti anni Venti” terminarono di fatto il5 dicembre 1933, quando si chiuse un’ epoca destinata a lasciare un segno indelebile nella storia americana. Nonostante la fine del Proibizionismo, molte vecchie distillerie non riaprirono, ma l’industria cominciò un lento consolidamento, presto nuovamente interrotto dal secondo conflitto mondiale. Solo col Dopoguerra la produzione tornò alla normalità, cercando di ritrovare quel seppur timido slancio che il conflitto mondiale aveva bruscamente interrotto. Oggi la sfida del whiskey americano può dirsi vinta: ormai da alcuni anni prestigiose distillerie come la Buffalo Trace, la Jim Beam o la Maker’s Mark propongono straight Bourbon di ottima qualità in grado di competere con i migliori single malt, sottolineando il ritrovato dinamismo dell’industria americana del settore.
Alla prossima puntata